DENTRO AL FUMO: a colloquio con Makoto Oda, scrittore e attivista - marzo 2006
Photo by Soon-Hye Hyun
Makoto Oda, nato a Osaka nel 1932, è l’autore di numerose opere saggistiche e letterarie. Tra i testi tradotti in inglese:
The Bomb, Kodansha International, 1990 (= A Hiroshima Novel, Kodansha International, 1995),
The Breaking Jewel, Weatherhead Books on Asia, Columbia Univ. Press, 2003,
Stomping on Aboji in Japanese Literature Today no. 23, 1998
Brian Ohkubo Covert è un giornalista indipendente con base a Hyogo, Giappone.
Curvato sopra il tavolino da caffè, nel suo appartamento in riva al mare a Nishinomiya, vicino a Kobe, in Giappone, Makoto Oda sta esaminando fotocopie di alcune pagine del New York Times, risalenti alla seconda guerra mondiale, che ha aperto davanti a sé. Oda aveva fotocopiato quelle pagine anni fa e la loro usura è evidente, forse per le molte altre volte che sono state mostrate agli ospiti.
Oda trova la pagina del Times che sta cercando, datata 15 giugno 1945, il suo dito corre a indicare una foto aerea, apparentemente scattata dalle forze armate statunitensi, sul loro bombardamento a tappeto della città mercantile di Osaka, in Giappone, dove lui è nato e cresciuto. Come a indicare il luogo esatto, il dito di Oda va dritto a un punto nella foto, oscurato dalle nuvole sprigionatesi dal bombardamento statunitense, e rimane saldamente fermo sulla pagina. "Io ero là" dice, "dentro al fumo". Esattamente due mesi dopo dalla pubblicazione di quella foto sul New York Times, il Giappone si arrese.
Per il settantatreenne Oda, e per molti della sua generazione in Giappone, la guerra è stata non qualcosa da leggere sui libri di storia o da guardare nei cinegiornali tremolanti: è stata qualcosa a cui sono, o non sono, sopravvissuti. Quella guerra nel bene e nel male fu l'evento determinante nella vita di Oda. Possiamo dire con certezza che raccontare al mondo la verità su quello che le guerre fanno alle persone comuni è stata la missione della sua vita da allora in poi.
Dove c'è fuoco c'è sicuramente fumo e Oda, nel corso della sua vita, sembra essere stato sempre là, dove c'era azione. Come uno dei più celebrati autori del dopoguerra in Giappone, come attivista contro la guerra statunitense in Vietnam, come portavoce delle vittime dei disastri abbandonate dal governo giapponese, come voce di pace dopo l'11 settembre 2001, come critico intransigente delle discriminazioni etniche e razziali, Oda è stato esattamente là, in mezzo al fuoco, usando il potere delle sue parole per fare appello alla coscienza della società.
In un’intervista con il giornalista indipendente Brian Covert, Makoto Oda ha preso una pausa da un paio di libri in corso di scrittura per condividere i suoi pensieri su questi temi dal suo proprio posto, "dentro al fumo".
Guerre del Passato
Le isole Hawaii erano un territorio occupato degli Stati Uniti d'America al tempo in cui la Seconda Guerra Mondiale infuriava nel mondo. Come il giornalista statunitense ed ex soldato Robert B. Stinnett ha analizzato nel suo libro Day of Deceit [N.d.T: tradotto in italia con il titolo: Il giorno dell'inganno], l'esercito statunitense e gli ufficiali governativi, le alte sfere fino all'allora presidente Franklin D. Roosevelt, stavano cercando un modo per convincere una scettica opinione pubblica americana a sostenere un coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra."Se attraverso questi mezzi il Giappone potesse arrivare a commettere un evidente atto di guerra [contro gli Stati Uniti] tanto meglio", propose il tenente comandante Arthur McCollum in un memorandum strategico in otto punti datato 8 ottobre 1940. Un anno dopo, il 7 dicembre 1941 - 8 dicembre per il calendario giapponese - l'amministrazione americana ottenne quello che desiderava: Pearl Harbor.
MAKOTO ODA: ...Quando la Guerra del Pacifico iniziò nel 1941, io stavo frequentando il terzo anno della scuola elementare. Mio padre continuava a dire che il Giappone sarebbe stato sconfitto una volta che la guerra fosse iniziata: "Guarda la mappa: questo grande paese e questo piccolo paese, più piccolo della California. Non possiamo vincere", diceva. Io sono stato educato in questo modo.
Quando la guerra cominciò, l’8 dicembre 1941, io non seppi subito della notizia della vittoria a Pearl Harbor. Andai a scuola. I miei compagni di classe mi dissero: “Abbiamo avuto una grande vittoria!” Io rimasi sorpreso e mi sentii felicissimo. Ma non per la vittoria del Giappone. All’imminenza della guerra eravamo molto ansiosi sul futuro del Giappone: un paese così grande, una nazione enormemente avanzata [gli Stati Uniti] combatteva il Giappone, un paese arretrato. Anche se eravamo ragazzi di seconda, o terza, elementare, non eravamo così stupidi. Conoscevamo la forza degli Stati Uniti - un grande paese, con grandi navi portaerei – e il Giappone era così piccolo.
Iniziammo ad avere un’ansia enorme sulle sorti del Giappone. E quando ascoltai la notizia della vittoria a Pearl Harbor, in un certo senso iniziai a sentirmi liberato da quest’ansia. Cominciai a sentirmi felice, sa? Dopo la vittoria a Pearl Harbor, i giornali giapponesi pubblicarono molte dichiarazioni di stima sulla vittoria del Giappone, scritte da intellettuali famosi. Ma io capisco: anche loro si sentivano liberati e si sentivano felici, in un certo senso. Io tornai a casa [da scuola] e dissi a mio padre, “Abbiamo riportato una vittoria!”. Allora lui con calma mi disse: “Ora saremo sconfitti”. Io rimasi sorpreso, fu come una doccia fredda. La reazione di mia madre fu molto curiosa: “Ah si?” [con noncuranza], così. Fu tutto.
…Io avevo 13 anni quando la guerra finì. Ho vissuto molte atrocità di guerra. Queste furono compiute dagli Stati Uniti, soprattutto sotto forma di raid aerei. Io ero a Osaka, fui cresciuto là. Osaka subiva raid aerei quasi ogni giorno. Ma fra i molti, i più distruttivi raid aerei che Osaka ricevette furono otto. Ho vissuto tre volte questo tipo di distruzione, uno sterminio completamente a senso unico, una mattanza. Non avevamo nessun potere per resistere ai raid aerei, nemmeno i militari ce l’avevano. La popolazione non aveva niente. Perciò fummo massacrati, distrutti completamente.
Oda mostra delle fotocopie di vecchie pagine del New York Times risalenti alla guerra.
Questa è in Osaka, una foto della città di Osaka, del 15 giugno 1945. Io ero là, dentro al fumo. Quando tu la osservi, in un certo senso è una bella immagine. Ma se tu eri lì, è qualcosa di infernale nel fumo, e le persone morivano lì. Io ero lì. Quindi questa fu la mia propria esperienza. Ho vissuto questo genere di situazione per tre volte. Perciò ho iniziato a pensare della guerra: la guerra significa questo tipo di distruzione e di massacro. Non avevamo nessuna possibilità di opporci.
Si mette a leggere, da uno degli articoli del New York Times, su come l’esercito statunitense aveva lanciato “benzina gelatinizzata” durante i suoi attacchi sulla città di Osaka – la prima città nel mondo in assoluto, secondo Oda, a diventare vittima degli attacchi con “benzina gelatinizzata” in una guerra totale. Uno dei primi obiettivi del bombardamento a tappeto americano della città di Osaka fu il Zoheisho, una delle maggiori fabbriche di armi giapponesi (e, Oda afferma, presumibilmente la più grande fabbrica di armi in tutta l’Asia), che era situata vicino al Castello di Osaka, nella parte centrale della città.
La nostra casa era abbastanza vicina a quel posto. Questo arsenale fu completamente distrutto dai bombardieri americani nel 14 agosto del 1945 – 20 ore prima della resa del Giappone. Io ero là. Un bombardamento enorme. Gli obiettivi erano grandi fabbriche, quindi non c’erano bombe incendiarie ma bombe da una tonnellata, quelle grandi. Penso che arrivarono 800 aerei. Degli 800, 600 arrivarono in questa [parte della] città di Osaka in quel momento. Sganciarono molte, molte bombe da una tonnellata, esplosivi enormi. Distrussero completamente [la fabbrica]. La nostra casa era lì, nelle vicinanze.
Sono stato io a scavare il rifugio, un lavoro fatto malissimo. Dentro al rifugio tremavamo, io tremavo, così. E dopo il raid aereo, due ore, tre ore, venni fuori. Iniziai a leggere un piccolo foglio là. Dopo il pesante bombardamento arrivò la pioggia. Pioggia nera cadde. Era pieno di fango; dal terreno fangoso raccolsi un foglio. Rimasi sorpreso: diceva “La guerra è finita” in giapponese. Li avevano lanciati insieme con le bombe da una tonnellata. Io iniziai a leggerlo ed ero stupefatto, in un certo senso, perché trovai [le parole] “La guerra è finita”. “Il vostro governo si è arreso”, diceva. Non ci credetti, a causa dell’enorme bombardamento. Il giorno successivo, 20 ore dopo, l’imperatore giapponese annunciò: “ci arrendiamo”.
Alla fine della guerra ci si aspettava che il popolo giapponese si mettesse a piangere. La nostra famiglia non pianse per niente. Molte persone non piansero. Guardi quelle immagini di persone che piangono di fronte al palazzo [imperiale di Tokio]. Ma ne conti il numero: è così piccolo, 100, 200, qualcosa del genere. [ride] Quindi l’intera popolazione non si mise a piangere, eravamo così esausti. La reazione di mia madre fu la tipica reazione delle persone comuni giapponesi: “Oh, loro hanno iniziato la guerra e loro hanno finito la guerra”.
Questo è un sentimento importantissimo della gente comune. Noi dobbiamo dipendere dal sentimento della gente comune, non da quello degli intellettuali. Il mio pensiero sempre inizia dal [punto di vista] della gente comune – molto importante: “Loro” decisero di fare la guerra senza consultarsi con noi, e “loro” decisero di finire la guerra senza consultarsi con noi! Io tengo sempre nella mia mente questo tipo di pensiero. Questo è necessario per tutte le persone in ogni paese, ovunque. Quindi [in questo senso] i miei scritti sono piuttosto differenti da quelli di altri intellettuali.
Sulla scrittura
Oda cita come sue prime influenze letterarie il drammaturgo greco della commedia antica Aristofane e lo scrittore americano Thomas Wolfe (1900-38), due scrittori radicalmente differenti, provenienti da due periodi storici diversi, che si sono occupati dei temi dell’amore e della guerra a modo loro.
BRIAN COVERT: Allora quando ha iniziato a scrivere per la prima volta? Quando ha cominciato per la prima volta a mettere le Sue storie insieme?
MAKOTO ODA: Io ero molto giovane. Mettiamola così: la mia carriera come scrittore è assai differente da quelle consuete. Dopo la guerra iniziai a pensare: “Mai più guerra nel mondo”. Dopo una distruzione immane, finalmente ci arrivò la pace. La pace era così importante per noi – anche per me. “Mai più persone stupide che fanno la guerra, mai più guerra nel mondo”, cominciai a pensare, cominciai a credere. Poi, improvvisamente, la guerra scoppiò [nel 1950] in Corea, un paese vicino. Osaka diventò una specie di ospedale per i soldati americani; c’erano ospedali americani là in Osaka. Non mi aspettavo che sarebbe successa una cosa simile. “Mai più guerra”, avevo pensato.
Iniziai a pensare alla guerra nel mondo. Il mondo non ha futuro, pensavo. Cominciai a rifiutarmi di credere alla situazione mondiale. Perciò decisi di annotare i miei sentimenti. Il titolo era Notebook on the Day After Tomorrow (“Taccuino per il dopodomani”). Lo scrissi in un epigramma: non possiamo credere nel domani, possiamo credere soltanto nel giorno dopo domani – questo era quello che sentivo. Quindi iniziai a prendere appunti. Motivi piuttosto differenti da quelli per scrivere un romanzo! Del tutto politici, in un certo senso. Ero al secondo anno della scuola superiore, durante la guerra di Corea. Ero una specie di genio a quel tempo. Invecchiando sono diventato una persona ordinaria. [ride]
BC: Era un tema molto pesante per uno scrittore così giovane.
MO: Certamente, certamente. [ride] Io ho sempre trattato temi pesanti, problemi pesanti.
“Voglio vedere ogni cosa”
Compiuti gli studi all’Università di Tokio – l’istituzione di insegnamento superiore più prestigiosa del Giappone – e con due romanzi all’attivo, il giovane Oda, laureato in studi greci, si trasferì negli Stati Uniti nel 1958-59 per studiare all’Università di Harvard. Era l’epoca della “Beat Generation” e della segregazione razziale in America, e Oda la visse in pieno. Approfittando del suo soggiorno oltremare negli Stati Uniti, successivamente viaggiò anche in altre parti del mondo. Quando tornò in Giappone, nel 1961 finì per scrivere il libro di grande successo che lo avrebbe collocato, all’età di 29 anni, fra le più prominenti figure letterarie del dopoguerra in Giappone.
BC: Allora il Suo primo grande libro fu Nandemo miteyaro, giusto?
MO: Quello fu il mio terzo libro, in realtà. Il mio primo libro fu Notebook on The Day After Tomorrow, un romanzo. Avevo scritto due romanzi prima di andare negli Stati Uniti. Diventai uno studente di Harvard. Avevo dato un esame per il programma di studio Fulbright e vinsi una borsa di studio, quindi andai negli Stati Uniti. Passai un anno ad Harvard, poi iniziai a fare un viaggio dal Messico all’Europa e all’India. Dopo essere ritornato in Giappone, andai alla casa editrice dei miei romanzi. Dissi all’editore, “Voglio scrivere di nuovo un romanzo”. Lui disse, “No, no, non adesso. In primo luogo, i tuoi romanzi non hanno venduto niente. Ma ciò che mi hai raccontato,” mi disse, “sul tuo viaggio è molto interessante. Perché non racconti del viaggio prima?” Quindi in un certo senso, fui forzato a scrivere sul mio viaggio.
È buffa la storia del titolo: io avevo scritto un racconto di viaggio abbastanza lungo e l’editore era piuttosto scontento: “Hai fatto la cosa sbagliata di nuovo – hai scritto troppo!” Lo pubblicò con una certa riluttanza: “Qual è il titolo?” Io dissi: “Voglio vedere ogni cosa” [Nandemo miteyaro]. Lui fu sorpreso: “Perché un titolo così audace? Meglio avere un titolo molto più modesto.” [ride] Era troppo grande per un titolo, un titolo audace, arrogante. Perciò dissi all’editore, “Allora, inventi Lei il titolo.” Non inventò nessun titolo; alla fine decise di prendere il mio. [ride] Nessuno pensava che questo libro sarebbe diventato un bestseller.
BC: Perché divenne un bestseller?
MO: …La ragione è molto semplice. È un racconto di viaggio, in primo luogo. Loro volevano vedere il mondo – i giapponesi volevano vedere il mondo. Allo stesso tempo [nel libro], misi l’accento sul fatto che ogni paese ha le sue proprie buone qualità. A quel tempo i giapponesi pensavano che il Giappone non fosse per niente un buon paese: molto povero, molto inferiore, ogni cosa era così negativa in Giappone.
BC: Soprattutto dopo la guerra.
MO: Allora scrissi in questo modo: “Cose buone o cose cattive, ogni paese è lo stesso. Meglio avere fiducia.” Questo tipo di logica, questo tipo di pensiero, piacque alla gente. Questo genere di sentimento piacque anche al popolo coreano [a quel tempo]. Molto strano, ma abbastanza naturale in un certo senso.
Vietnam e Beheiren
Non sarebbe passato molto prima che la fama appena raggiunta da Oda in Giappone come scrittore di bestseller si scontrasse con i suoi propri ricordi d’infanzia della Seconda Guerra Mondiale e con la sua disperazione da giovane idealista rispetto alla guerra di Corea. All’epoca in cui il libro di Oda divenne un bestseller, all’inizio degli anni ’60, gli Stati Uniti avevano iniziato la loro guerra nel Vietnam, una nazione del sudest asiatico. Fu in Vietnam che la “benzina gelatinizzata”, usata dall’esercito statunitense sulla città natale di Oda, Osaka, in Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, come riferito, sarebbe diventato quasi un nome familiare in giro per il mondo: napalm.
L’indignazione dell’opinione pubblica contro la guerra statunitense in Vietnam scoppiata nella società giapponese, con l’aiuto dello stesso Oda, diede, nel 1965, l’avvio a un movimento di base, non troppo rigorosamente organizzato, chiamato l’Alleanza dei Cittadini “Pace in Vietnam!” [in giapponese "BEtonamu ni HEIwa o! Shimin RENgo", conosciuta meglio come BE-HEI-REN]. I cittadini organizzarono sedi locali di Beheiren per tutto il Giappone e portarono il loro messaggio contro la guerra nelle strade, nelle scuole, nelle comunità locali e nelle sale di consiglio delle società corporative. I partecipanti al Beheiren inoltre nascosero e dettero riparo ai soldati americani “assenti ingiustificati”[n.d.t. Absent Without Leave nel testo originale]di base in Giappone, aiutando diversi soldati a scappare nei paesi oltremare ed evitare di combattere in Vietnam.
BC: Vorrei concentrarmi su alcuni aspetti del Suo attivismo con Beheiren. A quel tempo, in un certo senso, era un movimento abbastanza rivoluzionario nella società giapponese. Come iniziò il Suo coinvolgimento con Beheiren, e qual’era il senso di Beheiren? Come cambiò il Giappone in quei giorni?
MO: [pausa] Forse era un genere di movimento spontaneo dal basso. Non uno sponsorizzato ideologicamente, orientato ideologicamente – solo un movimento spontaneo contro la guerra. Le persone si arrabbiarono per la guerra in Vietnam, incluso io stesso. Il mio punto di partenza era…la mia esperienza di guerra, quelle immagini di distruzione. E dopo molti anni, iniziai a scoprire la mia posizione: io ero dentro questo genere di “fumo” quando ero un ragazzo, ma non lo notavo. Non vedevo la storia a quel tempo. Ma molti anni più tardi cominciai a scoprire la storia: noi giapponesi avevamo fatto tanti bombardamenti contro le città cinesi – molte, molte città, Nanjing [N.d.T. Nanchino] e altre.
Quando ero un ragazzo, io vedevo lo stesso genere di immagini [guardando in basso] dall’alto, come questa [puntando alla pagina del New York Times]. Quando andavamo alle sale cinematografiche e vedevamo i cinegiornali, lanciavano bombe come queste, ed ecco il fumo. Non provavo niente riguardo a ciò. Lo vedevo solamente. Forse i ragazzi americani erano così quando vedevano quelle immagini sul New York Times, senza sapere cosa stava succedendo dentro al fumo. Io ero là, ero lo stesso: quando ero un ragazzo vedevo molte immagini ma non provavo nessuna sensazione. Non pensavo alla vittoria degli aerei della flotta della marina militare giapponese; lo vedevo solamente senza nessun sentimento. Ma quando fui dentro [al fumo], fu una situazione completamente differente.
Quando la guerra in Vietnam, il bombardamento del Nord Vietnam, cominciò ad aver luogo, a quel tempo io vidi le immagini in TV: lanci di bombe con un gran fumo. Io ero là, in un certo senso. Cominciai a scoprire l’enorme agonia del popolo vietnamita. Poi iniziai a organizzare il movimento contro la guerra in Vietnam, insieme ad altri. Le mie motivazioni erano che io avevo l’esperienza di essere una vittima [di guerra]; allo stesso tempo cominciai a scoprire il ruolo degli americani che sganciavano le bombe – il ruolo di chi crea le vittime. Allora iniziai a organizzare tutto questo.
Avevo un’enorme compassione per i soldati americani che erano stati arruolati contro la loro volontà. Dovettero andare in Vietnam a sparare sulla gente. Questa fu la stessa situazione dei soldati giapponesi che combatterono in Cina [durante la Seconda Guerra Mondiale]. Erano stati coscritti, così dovettero andare là a combattere e sparare ai cinesi. Dobbiamo liberarci da questa specie di circolo vizioso, pensai. Il Giappone era contro la propria volontà un partner degli Stati Uniti [in Vietnam]. Il popolo giapponese non era felice di ritrovarsi nel ruolo di partner degli Stati Uniti, ma fummo forzati a farlo sotto la pressione degli Stati Uniti, sotto il trattato di sicurezza. È la stessa situazione anche oggi.
Perciò dovevamo liberarci da questo tipo di circolo vizioso fra gli Stati Uniti e il Giappone. Quello fu il punto di partenza. E [il generale statunitense] Curtis LeMay, ottenne una medaglia, la più alta medaglia [d’onoreficenza] del governo giapponese – la ricevette dall’imperatore [nel 1964]. E dopo aver ricevuto quella medaglia dal governo giapponese, iniziò a bombardare il Nord Vietnam, dicendo “Stiamo per riportare il Vietnam all’Età della Pietra”, così. Molto ironico.
BC: Sembra che Beheiren stesse cambiando non solo la situazione visibile nella società giapponese, ma forse dentro, anche, le persone stavano cambiando.
MO: Credo di sì. E tra parentesi, questo era un movimento molto libero, non orientato ideologicamente. In piena libertà le persone si riunivano. Quella fu la prima volta: c’era chi stava con il Partito Socialista, chi con il Partito Comunista e perfino qualcuno con il Partito Liberaldemocratico [che governava], ma andava bene.
“Persona non grata”
Quando gli anni passarono e le sedi locali del Beheiren si sciolsero in seguito alla sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, Oda continuò a sostenere il popolo vietnamita a modo suo. Continuò anche a scrivere, producendo volumi di opere, includendo tematiche sui diritti umani nei paesi sia orientali che occidentali. La sua reputazione come la voce della gente comune lo precedeva e destava sospetti ovunque viaggiasse nel mondo – specialmente nella terra della libertà e della democrazia.
BC: Mi risulta che Lei fu messo sulla lista nera dal governo degli Stati Uniti durante i giorni della guerra in Vietnam. E’ vero?
MO: Molto difficile [viaggiare là], anche oggi. Membri del Partito Comunista possono andare negli Stati Uniti. Non io. Ho molte difficoltà con il vostro paese [per quanto riguarda l’ingresso] Molte, molte difficoltà.
…Fui invitato dal CCAS – Committee of Concerned Asian Scholars (Comitato degli Studiosi Asiatici Impegnati) – per fare un giro di conferenze durante la guerra in Vietnam. E accettai l’invito, ma la mia richiesta di visto fu rifiutata dall’ambasciata americana a Tokyo. Io vivevo a Tokyo a quel tempo. Mi chiesero di presentarmi all’ambasciata americana. Io dissi:, “no, perché non venite voi qui?” Non vennero. Il mio visto fu rifiutato. Alla fine molte persone, studiosi americani, fecero del loro meglio per negoziare con l’ambasciata americana. E il visto arrivò tre settimane dopo.
Successivamente, ebbe inizio questa storia singolare. Con il visto, andai a San Francisco; avevo un impegno per una conferenza a Washington DC. In quei giorni [il primo ministro giapponese Eisaku] Sato era a Washington D.C. per trattare con Nixon riguardo a Okinawa. Dunque, io arrivai a San Francisco, dettero un’occhiata a questo passaporto, poi “Prego, venga da questa parte” – come al solito per me, sempre. In molti posti, in molti paesi. E fui accompagnato in una piccola stanza. Il funzionario là disse: “Noi non possiamo decidere se Lei può entrare in questo paese o no.” Io dissi: “Questo qui è il visto”. Lui disse “Il visto è una faccenda differente. I visti sono rilasciati dal Dipartimento di Stato. Questo è il dipartimento d’immigrazione. Perciò noi non possiamo decidere,” così. “Vada a Washington DC”, mi disse. Io avevo un impegno per una conferenza a Washington DC, così andava bene per me. Andai là, feci un discorso. Dopo di che mi fu domandato di presentarmi all’ufficio immigrazione in Washington DC.
In seguito successe una cosa curiosa. Io andai con un avvocato americano. Il funzionario là dentro – un ufficiale di altissimo rango, credo – mi fece delle domande: “Lei è venuto qui per incitare ad azioni illegali in questo paese?” Io dissi, “Certamente no. Sono stato invitato dal “Committee of Concerned Asian Scholars”. Sto facendo un giro di conferenze ad Harvard e molte università,” così. Lui mi disse, in presenza del mio avvocato americano: “Può giurare su questo?” “Posso giurare molto facilmente, è completamente vero. Lo giuro.” E allora, lui domandò riguardo al mio programma. Io glielo dissi. …Gli dissi – molto divertente, come un dialogo Zen – “Io ora sono negli Stati Uniti d’ America.” Lui disse, “No.” Molto divertente! “No, Lei non è negli Stati Uniti.” Io gli dissi, “Qui è una parte degli Stati Uniti d’America. Io sono qui. Significa che, parlando con logica, io sono negli Stati Uniti d’America.” Lui disse, “No”. Una stupida conversazione, per cinque o 10 minuti in questo modo: “no – si”. Alla fine, il mio avvocato disse, “Abbandoniamo questa specie di stupido dialogo.”
E allora il funzionario mise un foglietto nel mio passaporto. Poi, dopo il giro di conferenze, tornai a San Francisco per lasciare il paese. E i funzionari là presero questo foglietto, quello fu tutto. Non stamparono la mia entrata, la mia uscita. Io non ero mai stato là. Significa che io non sono stato negli Stati Uniti d’America. Io ero là, ma non ero stato negli Stati Uniti d’America! Fu come in un paese socialista.
…Un giorno, un bel po’ di tempo fa, fui invitato dalla Smithsonian Institution a partecipare a un congresso a Washington DC. Pensai, che fosse una buona idea andare negli Stati Uniti con l’invito della Smithsonian Institution. Andai al consolato degli Stati Uniti di Osaka e presentai [i miei documenti]. Dopo diversi minuti, qualcuno disse, “Mr. Oda, può venire da questa parte?” Questa è la routine, sempre, per me. Andai in una piccola stanza e il vice console, credo, disse: “Cos’è questa storia su di Lei e il Suo viaggio negli Stati Uniti?” Visto che c’era qualche difficoltà. Io gli dissi: “Dipende da voi, dipende dal vostro governo. Forse è perché ho partecipato al movimento contro la guerra in Vietnam.” Lui disse, “Anche io l’ho fatto.” [ride] Molto divertente. Divenne un buon amico; è vissuto qui a Nishinomiya. Ora è un ambasciatore da qualche parte, credo. E’ una specie di appassionato di letteratura; scrive anche romanzi.
[Un’altra volta] c’era una conferenza sui diritti delle minoranze a New York. Fui invitato, solo che non volevo più andare [negli Stati Uniti]. Ma mi chiesero di venire; alla fine decisi di andare senza un visto [come fanno i turisti giapponesi]. Poi, come spesso succede, controllarono una lista – io sono uno “straniero indesiderato” forse – e iniziarono a esaminare ogni cosa [durante una perquisizione personale]. “Stia dritto!”, in questo modo. Io mi arrabbiai. “Voglio tornare indietro”, gli dissi. E loro: “Lei non può tornare indietro, dato che non è ancora entrato in questo paese”. [Ride] Presero i miei biglietti da visita, controllavano ogni cosa. Mi trovarono un biglietto da visita di Ramsey Clark. Pensai che avrebbero potuto mettere della polvere bianca nella mia tasca. Possono farlo, senza che tu te ne accorga.
Una o due ore più tardi fui rilasciato. Andai alla conferenza a New York. Raccontai la mia esperienza alla platea: persone delle minoranze, neri, portoricani, molte persone. Loro dissero, “Questa è una cosa normale. Noi sperimentiamo lo stesso tipo di cosa ogni giorno”! [ride] E poi dopo quello ogni volta che mostro il mio passaporto ai funzionari dell’immigrazione, osservano la mia faccia. Qualcosa c’è nella loro macchina. Qualcosa c’è scritto là.
BC: Quindi Lei è ancora negli archivi del governo degli Stati Uniti.
MO: Può darsi che sia così. Non lo so.
BC: Ma quello sta succedendo sempre di più in questi giorni.
MO: Già, penso di sì. Ma non voglio andare più negli Stati Uniti. …Sono divenuto una persona non grata per molti paesi: Thailandia, per esempio, Malesia, Singapore. Ho scritto molte cose sui diritti umani in Thailandia, Malesia, Singapore. Sono diventato una persona molto “fastidiosa” per loro. Ho organizzato una conferenza dei popoli asiatici qui [in Giappone] la prima volta e la seconda a Bangkok, in Thailandia. Andai là, fui fermato all’ufficio immigrazione. Le persone della Japan Airlines mi si avvicinarono e dissero, “C’è qualche problema adesso con il Suo caso.” Lo discussero in lingua tailandese: io ero “sospettato” di far parte del “Red Army of Japan” [N.d.T un’organizzazione di estrema sinistra armata] Decisero di mettere un poliziotto a pedinarmi. La Tailandia è un paese fatto così. Questi sono stati terribili, dovunque essi siano. Mi dispiace dire che gli Stati Uniti sono uno di loro.
BC: È vero. La situazione sta peggiorando.
MO: Non ci sono più paesi liberi.
“Gyokusai”
Sotto molti punti di vista, un romanzo che Oda scrisse nel 1998 chiamato Gyokusai, ci serve per definire il lavoro della sua intera vita. La parola “gyokusai” in giapponese, tradotta in senso lato, significa una specie di sconfitta con onore. Tradotta letteralmente, significa “la frantumazone del gioiello” – il “gioiello” in questo caso sarebbe l’imperatore del Giappone e la “frantumazione” l’atto delle persone comuni morendo in massa per la gloria dell’imperatore, che è un dio vivente in forma umana secondo il credo religioso scintoista.
Oda ha a lungo sostenuto che l’imperatore giapponese non è un dio vivente ma un normale essere umano come ogni altro – una posizione molto pericolosa da prendere in una società dove i sostenitori del culto dell’ultradestra, gli auto-proclamatisi guardiani dell’“onore dell’imperatore” ancora ricorrono alle intimidazioni fisiche e anche all’assassinio per reprimere simili idee. Oda si è spinto fino a dire che l'ex imperatore Hirohito, la cui vita fu risparmiata dagli americani dopo la guerra, sarebbe dovuto morire come tutta l’altra gente comune e i soldati di fanteria giapponesi che morirono nel nome dell'imperatore durante la spinta colonialista del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.
Il suo romanzo Gyokusai si concentra sugli ultimi giorni di un gruppo immaginario di soldati giapponesi, di guarnigione su una piccola isola nel sud del Pacifico, preparando la loro ultima resistenza per la gloria del lontano imperatore, contro la potente macchina militare americana che stava spazzando via la regione quasi alla fine della guerra. Gyokusai fu tradotto in inglese e pubblicato con il titolo The Breaking Jewel (“Il gioiello che s’infrange”) nel 2003.
BC: Che cosa La costrinse o ispirò a scrivere quel libro?
MO: ...Le piccole nazioni, quando combattono contro le grandi nazioni, usano due o tre tattiche o strategie. Una è un attacco di sorpresa, come a Pearl Harbor. Quando la guerra è protratta e non è più possibile vincere, allora devono usare tattiche o strategie molto forti come gli attacchi suicidi, tokkô, o battaglie gyokusai, così. Dal punto di vista dei tempi normali, sono folli, certamente. Commettono certe simili azioni, come attacchi suicidi o gyokusai. Sembra che siano pazzi, insani o ubriachi, in un certo senso. La parte americana, a quel tempo, pensava, questo è stupido, naturalmente. Io lessi molti, molti libri, reazioni dei soldati americani a quel tempo.
Allora, [i soldati giapponesi] iniziarono a combattere. Loro sanno, sono persone logiche, non sono folli. Solo che questa è una specie di logica conclusione delle piccole nazioni che combattono contro le grandi nazioni, come gli Stati Uniti. Quindi io cominciai a pensare dopo la guerra, ricordando le esperienze di guerra una dopo l’altra – atrocità, distruzioni e stragi. L’unica via possibile, per noi giapponesi a quel tempo, se non sei insano di mente, se sei un essere umano normale, era sacrificare te stesso. E la logica ci fu procurata: dovevamo morire per l’imperatore. Noi dovevamo vincere questa guerra. E molti tipi di giustificazioni [ci furono date] riguardo alla Guerra del Pacifico – noi la chiamammo Dai-Tôa Sensô, la “Guerra della Grande Asia”; noi non la chiamammo la Guerra del Pacifico – sotto il pretesto di liberare i popoli oppressi in Asia: “Dobbiamo combattere contro simili grandi potenze – America o Inghilterra”, così.
Fino ad un certo grado, questo ha una giustificazione logica perché questa è storia vera: potenze occidentali invasero l’Asia, colonizzarono popoli asiatici. Quindi il Giappone doveva combattere contro questa specie di sporche potenze occidentali per liberare i popoli asiatici. Questo punto è molto logico in un certo senso. Ma allo stesso tempo, naturalmente, il Giappone cominciò a nascondere la sua propria storia: colonizzazione di Taiwan, [annessione] della Corea. Loro non menzionarono quello.
Insomma in ogni modo, iniziammo a combattere contro le grandi potenze sotto questo genere di pretesto come una giustificazione della Guerra della Grande Asia. Finalmente, la fine arrivò: noi siamo una piccola nazione, quindi dobbiamo combattere contro queste [grandi] usando simili tipi di tattiche – attacchi suicidi, gyokusai. Conclusioni molto logiche in un certo senso, se tu credi in certi tipi di principi, capisce? Perciò cominciai a pensare dopo la guerra: se fossi stato un poco più vecchio della mia effettiva età – io avevo 13 anni alla fine della guerra – se fossi stato intorno ai 16 o 17 anni, può darsi che mi sarei unito a loro, pensai. Ci sono così tanti fattori – un po’ di giustificazione, un po’ di propaganda, tutto mescolato – al tempo della guerra.
Quindi iniziai a pensare a questo. E dopo riflessioni di tanti anni, pensai, devo scrivere sulla battaglia gyokusai a modo mio. Feci dei sopralluoghi, andai nelle isole del Sud Pacifico una dopo l’altra, isole gyokusai. Studiai. Cominciai a vedere scene reali. Poi dopo di ciò, pensai che dovevo scrivere questo.
Il 6 agosto 2005 per il sessantesimo anniversario del lancio americano della bomba atomica su Hiroshima, la “British Broadcasting Corporation” (BBC) trasmise “Gyokusai: The Breaking Jewel”, un eccellente drammatizzazione radiofonica della versione inglese del libro di Oda Gyokusai. Riportiamo di seguito alcuni brani dell’intervista di Oda con la BBC che fu anch’essa trasmessa sulle frequenze estere quel giorno:
BBC: Perché, Lei pensa, i soldati erano preparati a morire negli attacchi suicidi?
MO: Loro morirono per l’imperatore; morirono per la gloria dell’impero giapponese. Ma dopo la guerra l’imperatore sopravvive. [ride] Molto strano. L’imperatore deve morire con loro, con i soldati delle battaglie gyokusai. Ma l’imperatore sopravvisse intatto. E’ considerato una specie di simbolo di pace adesso, dopo la guerra. Così tante persone iniziarono ad avere dubbi enormi intorno a questo tipo di logica ed etica degli attacchi gyokusai. Io fui uno di loro, capisce? Quindi cominciai a provare molta più compassione per i soldati, quando morivano per niente. I soldati nelle battaglie gyokusai, le battaglie del “gioiello che s’infrange”, mi costrinsero a scrivere un romanzo.
BBC: Signor Makoto Oda, la donna che appare alla fine dello spettacolo [e del libro] parla di amore. È strano, non è vero, in un opera sulla guerra?
MO: La sola consolazione in questa situazione disperata è l’amore. L’amore fra uomo e donna è un amore molto naturale. Perciò, la donna appare – il simbolo di amore. L’amore umano è la sola consolazione, la sola speranza, nel mondo intero, pieno di tante guerre e pieno di tante contraddizioni, pieno di tanti problemi, lottando l’uno contro l’altro. Ma la consolazione e la speranza che possiamo avere è il nostro amore.
BBC: Pensando agli attacchi gyokusai, i giapponesi compierebbero questo tipo di attacchi suicidi oggi?
MO: Se me lo avessero domandato 20 anni fa, probabilmente avrei risposto, “Non lo farebbero”. Ma ora, la situazione è un po’ cambiata. Di nuovo, nazionalismo, sentimenti nazionalistici, sentimenti patriottici, un simile tipo di propaganda, un simile tipo di educazione [sta crescendo]. Perciò in questo caso non posso rispondere in maniera così definitiva.
BBC: Il lancio della bomba atomica su Hiroshima 60 anni fa: quali sono i Suoi sentimenti personali riguardo a quell’atto adesso?
MO: Dopo Hiroshima e Nagasaki la questione è sempre quella: noi possiamo perdonare il crimine, forse, ma tu non puoi perdonare la responsabilità per questo crimine. I crimini sono commessi dalla persone. Tu devi comprendere, in primo luogo, perché le bombe furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki dagli americani. Io cercai di capire come e perché. Poi, dopo aver capito la situazione per la quale gli americani compirono questo, io non posso perdonare la responsabilità di quelli che lo fecero. Questo è il mio modo di pensare.
BBC: Lei è stato un attivista di spicco per la pace, per un lungo tempo adesso, non è così?
MO: Io solo faccio quello che, come cittadino, devo fare per rendere il mondo un po’ migliore di quello che è oggi. Ho 73 anni, penso di essere molto giovane in un certo senso perché il mondo è ancora giovane [e ancora ha bisogno] di essere cambiato.
Ho domandato a Oda riguardo a una parte della sua intervista con la BBC che sembrava particolarmente controversa:
BC: Un commento che Lei ha fatto alla BBC è stato veramente interessante per me. Lei ha detto che era strano che i soldati avrebbero dovuto morire per l’imperatore, anche se l’imperatore rimane in vita.
MO: Così tragico, non trova? Loro credevano nell’imperatore; per la glorificazione dell’impero giapponese morirono. Ma, l’imperatore rimase al sicuro, intatto. Non fu portato al tribunale per i crimini di guerra, al processo militare per i crimini di guerra, per niente. Ed iniziò pure ad essere rispettato come un simbolo di pace. Quindi io mi arrabbiai, naturalmente. I soldati, loro, morirono là nella totale miseria. Non furono abbandonati da britannici o americani – furono abbandonati dal loro proprio imperatore. Io combatto contro il sistema dell’imperatore, certamente. [ride]
BC: Lei ha menzionato che l’imperatore avrebbe dovuto morire con loro.
MO: Già, la penso così. Almeno loro si ritirarono [con la morte], l’imperatore avrebbe dovuto abdicare.
BC: ...In quei giorni era devozione all’imperatore. Ora è aikoku-shin [N.d. T. l’amore per la Patria].
MO: Si, “devozione al paese”. E il centro del paese deve essere l’imperatore – alcune persone dicono così.
“Olimpiadi di discriminazione”
Delle dozzine di libri che Oda ha scritto nel corso degli anni in giapponese, sorprendentemente solo due sono stati tradotti e pubblicati in inglese: The Breaking Jewel e H: A Hiroshima Novel (pubblicato anche come The Bomb). Entrambi i libri, comunque, hanno un intreccio secondario comune che li attraversa: la discriminazione etnica e razziale, un tema per il quale Oda è molto sensibile. Nel libro Hiroshima, l’intreccio secondario è la discriminazione bianca americana contro gli indiani nativi americani, i neri e i giapponesi-americani, così come la discriminazione giapponese contro i coreani, durante la fabbricazione delle bombe atomiche che sarebbero state più tardi sganciate sul Giappone. In The Breaking Jewel è la discriminazione giapponese contro un soldato coreano, Caporale Kon, che si arruola nell’Esercito Imperiale Giapponese per combattere gli americani.
BC: Parlando del caporale Kon in Gyokusai e dei coreani in Giappone: potrebbe parlare un po’ di come sono trattati i coreani in Giappone oggigiorno?
MO: Mia moglie è coreana, in primo luogo. [pausa] La situazione sta cambiando. In complesso, credo, la situazione sta migliorando, quando parliamo di discriminazione e problemi di questo genere. Quindi potrei dire che il Giappone è in una direzione molto buona adesso. Ma allo stesso tempo, un sentimento nazionalistico [fra i giapponesi] sta prendendo forza.
Quando parliamo dei coreani: se non si fanno sentire circa la relazione fra i due paesi, la parte giapponese pensa di avere delle buonissime relazioni. È un po’ meglio rispetto a 10, 20 anni fa, potrei dire. Ma, se sei coreano e dici qualcosa sulle visite del [primo ministro giapponese] Koizumi Junichiro al Yasukuni Shrine come il presidente della Corea del Sud fa adesso, loro [i giapponesi] pensano, “Non sei così buono”. Come succede con gli americani: se le persone arabe, e gli arabi negli Stati Uniti, sono molto calme, penso [gli americani diranno] “Brave persone, brave persone”. Se dicono, “Sei sporco, Bush!” in questo modo, [gli americani dicono], “Siete fastidiosi”. Parole molto universali. Lo stesso con gli immigrati in Francia: Se non protestano più di tanto riguardo alle principali politiche, le principali tendenze della società, sono trattati come persone uguali, sono trattati in una buona maniera.
Parlando dei cinesi, per esempio. I cinesi si fanno sentire molto di più circa gli atteggiamenti giapponesi riguardo al passato. Loro [i cinesi] si stanno facendo sentire adesso. ...Se sei contento con una Toyota, per esempio, e pensi che la Toyota sia una buona macchina, allora, va bene. Ma questo rapporto vale anche per le altre nazioni, non è una peculiarità dei giapponesi, ma anche dei francesi e pure degli americani. Il Giappone è avanzato al livello della discriminazione americana o della discriminazione francese, potrei dire. [ridendo] Capisce cosa voglio dire?
BC: Già, quello è interessante. Ma allo stesso tempo, se parli con i giovani giapponesi, loro diranno, “No, il Giappone non ha nessuna discriminazione. Naturalmente l’America sì, gli altri paesi sì, ma noi no”. Com’è questo che perfino i giovani in Giappone non possono riconoscere che c’è della discriminazione contro i coreani?
MO: Ma pensando alla stessa domanda: se faccio questa domanda ai giovani americani, loro dicono “Noi non abbiamo nessuna discriminazione qua. Guardate al Giappone!” [ride] Molti giornalisti stranieri mi hanno fatto domande sulla discriminazione dei coreani, burakumin [casta discriminata del Giappone], e così via. È del tutto vero, certamente. Io accetto questo tipo di critica, naturalmente. Ma sempre faccio loro la domanda: Cosa fa Lei riguardo alla discriminazione nel Suo proprio paese? Dissi a un giornalista britannico rispetto alla discriminazione degli indiani a Londra: “Se Lei fa qualcosa, potrei parlare con Lei. Lei non fa niente. OK, Lei è solamente ‘superiore’, questo è tutto; il Giappone è un ‘paese arretrato’ sul tema della discriminazione. Se Lei fa qualcosa quando si imbatte con il pregiudizio fra le persone di Londra, allora può parlare a proposito del mio pregiudizio – il nostro pregiudizio, il vostro pregiudizio. Possiamo discutere, possiamo scoprire gli stessi punti. Possiamo fare veri discorsi. Altrimenti, è una specie di ‘Olimpiadi della discriminazione’ – ‘Olimpiadi della superiorità [razziale]’.”
I giornalisti giapponesi hanno lo stesso tipo di sentimenti: “Lei parla della discriminazione dei coreani e dei burakumin qui, ma guardi all’America! La discriminazione contro i neri è così enorme! Guardi agli immigrati in Francia.” È sempre la stessa storia. Ma non fanno niente; solo dicono quello. Significa che noi [giapponesi] siamo un popolo “superiore”, qualcosa di stupido come questo. Non mi piace questo genere di “Olimpiadi” [ride]. Il Giappone è salito allo stesso grado di discriminazione che tu puoi trovare negli Stati Uniti, Francia o Inghilterra. Non un livello primitivo. Cinquanta, 60 anni fa, noi [in Giappone] avevamo una discriminazione molto rozza, molto brutale. Ora, abbiamo una discriminazione molto più avanzata, sofisticata; puoi trovarne lo stesso tipo negli Stati Uniti, Francia o Germania.
BC: Allora come Lei – noi – dobbiamo trattare questo tipo di “discriminazione sofisticata” in Giappone o fuori dal Giappone?
MO: ...Mi piacerebbe tenere una vera discussione con le persone al di fuori di questo paese, che affrontano gli stessi problemi: discriminazione a Londra, discriminazione a New York, discriminazione a San Paolo, discriminazione in Germania. Possiamo avere una conversazione sincera, possiamo ritrovare la stessa situazione, (e discutere su) come risolvere questa situazione – in comune e separatamente. Questo genere di discussione reale è necessario nel periodo attuale. Altrimenti è una specie di perdita di tempo. Solo chiacchiere.
BC: Lei ha menzionato Sua moglie pochi minuti fa, e sono veramente curioso di [sapere] come Lei abbia preso coscienza dei problemi della discriminazione. Quanto consapevole o cosciente era Lei delle forme di discriminazione dei coreani in Giappone prima di incontrare Sua moglie? E quale fu la sua influenza su di Lei in seguito?
MO: Osaka era pieno di coreani e aveva anche un problema di burakumin. Quando ero un bambino che andava a scuola durante la guerra, [i giapponesi] commettevano apertamente atti di discriminazione contro i coreani, discriminavano apertamente contro i burakumin, a quel tempo. Non con maniere sofisticate – con modi rozzi. Mi sono imbattuto in questo genere di episodi. Non mi piaceva vedere questo tipo di stupidi avvenimenti. Quindi il punto di partenza del mio, come dire, “moto interiore contro la discriminazione”, è iniziato nell’infanzia, quando ero un bambino piccolo. Ho incontrato molti generi di stupide discriminazioni.
E pure negli Stati Uniti ho incontrato discriminazione contro i neri, vede? Io ero uno studente nel nord, dove non c’era una discriminazione visibile contro i neri. Non molti studenti giapponesi a quel tempo andavano al sud. Io decisi di andare al sud, usando l’autobus. Incontrai enormi [casi di] brutale ed evidente discriminazione contro i neri. E in un certo senso, cominciai a sentire che anche io ero discriminato, naturalmente. Per esempio, a quel tempo nel sud, il matrimonio non solo fra bianchi e neri ma anche fra giapponesi e bianchi era illegale. Incontrai questo genere di problemi.
Dovetti andare alla sezione “bianchi” di una sala di aspetto, per esempio, ma io ero “di colore” – veramente strano. Nel nord è in maniere più sottili: stavo chiacchierando con una signora e capitò di accennare al colore dei miei capelli. E’ bianco ora [ride], ma era nero allora. “I miei capelli sono neri”, dissi. Lei disse, “No, i Suoi capelli sono scuri.” Mi resi conto che era un tipo di discriminazione. Prima del movimento Black Power (“Potere Nero”), usavano “scuro”; “nero” non era una buona parola. Più tardi apparve “Black is Beautiful” (“Nero è Bello”), ma a quel tempo, era in maniere più sottili: “I Suoi capelli non sono neri, sono scuri”. Io capii cosa vuol dire. Questa è discriminazione. Perciò sentii di essere stato discriminato. Io non ero un gentiluomo così stupido arrivato dal Giappone. Dopo aver speso due anni negli Stati Uniti, scrissi un romanzo [nel 1962] chiamato America, sulle relazioni fra neri, giapponesi e bianchi. Io sono contro ogni tipo di discriminazione in primo luogo, qualunque essa sia.
BC: Per lo meno nel Suo periodo universitario, Lei si è mosso nell’élite della società giapponese. Lei è andato alle migliori università nel Giappone e negli Stati Uniti. Non ha sentito un po’ di pressione per conformarsi e rimanere in quel mondo, piuttosto che uscirne fuori e incontrare persone “reali”?
MO: Be’, non ho sentito così tanta oppressione, innanzitutto. La mia famiglia era una famiglia molto liberale. Se fossi stato un po’ più vecchio a quel tempo e se avessi detto a mia madre o mio padre “Mi sto per sposare con una coreana,” può darsi che loro avressero detto, “Oh, OK.” [ride] Qualcosa del genere. Potrebbero non aver detto subito “Sì”; potrebbero aver aspettato un’ora [e poi avrebbero detto], “OK, va bene”. Quella era l’ampiezza del loro liberalismo.
Articolo 9 della “Costituzione della pace”
L’ambiente con una mentalità aperta dentro il quale Makoto Oda fu cresciuto da sua madre casalinga e suo padre avvocato gli sarebbe servito molto più tardi nella vita. Nel 1989 Oda vinse il “Lotus Prize” (“Premio Lotus”) dell’Associazione degli Scrittori Afro-Asiatici, per il suo libro Hiroshima. Oda fu un aspro critico dell’inattività del governo giapponese in seguito al Grande Terremoto di Hanshin che colpì, il 17 gennaio 1995, Kobe e le aree circostanti (dove vive Oda) lasciando più di 6000 morti. Si occupò della causa delle vittime del terremoto, aiutando a stendere e far emanare un progetto di legge che avrebbe fornito assistenza finanziaria del governo a una parte delle vittime (Oda più tardi declinò un invito da parte dei cittadini locali di presentarsi come candidato alle elezioni di governatore della Prefettura di Hyogo). Alla vigilia dell’attacco Nato alla Yugoslavia nel 1999, Oda fece un appello al Giappone perché diventasse una “nazione obiettrice di coscienza” che rifiuta di combattere o appoggiare qualunque guerra, esattamente come i singoli soldati fanno in molti paesi. Subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, sia prima che dopo l’invasione statunitense dell’Afganistan e dell’Irak, Oda fu ancora una delle voci principali in Giappone contro la guerra.
Per Oda, essere “pacifista” è sinonimo di essere “pro-Costituzione” – in particolare, in difesa dell’articolo 9 della Costituzione del Giappone e per la sua applicazione su scala internazionale. A questo scopo, nell’estate del 2004, Oda e alcuni altri autorevoli intellettuali (incluso lo scrittore vincitore del Premio Nobel Kenzaburo Oe) hanno aiutato a dare l’avvio alla Article 9 Association.
L’articolo 9 della Costituzione del Giappone, redatto nel 1947 sulle ceneri delle Seconda Guerra Mondiale, ripudia per sempre la guerra e vieta al Giappone di avere un esercito. I due paragrafi dell’articolo 9 recitano così:
“Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull'ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della nazione, ed alla minaccia o all'uso della forza, quali mezzi per risolvere le controversie internazionali.”
“Per conseguire l'obbiettivo del comma precedente, non saranno mai mantenute forze di terra, di mare e di aria, così come altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto.”
Benché fu l'America a forzare il Giappone ad accettare quella condizione nella sua costituzione in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, fu la stessa America a far sì che, sotto la strategia statunitense della guerra fredda, il Giappone risatabilisse un esercito, le Self-Defense Forces (SDF-“Forze di autodifesa”). Nel ventunesimo secolo, le SDF sono venute ad aggiungersi ai soldati statunitensi stimati in 50,000 che ancora oggi sono stazionati nella basi statunitensi sparse nel Giappone. C’è stata una pressione crescente da parte degli Stati Uniti, specialmente negli ultimi anni, verso il Giappone per “emendare” l’articolo 9 in maniera che il Giappone possa, con quel pretesto, giocare un ruolo militare più forte nel supportare le guerre statunitensi nel mondo. Come risultato il Giappone ha centinaia di truppe SDF stazionate in Samawah, Iraq, mentre stiamo scrivendo. L’opinione pubblica giapponese si è opposta fortemente al cambiamento dell’articolo 9, ma i nazionalisti pro-America nel governo giapponese, sotto il primo ministro Junichiro Koizumi e il reggente Partito
Liberal Democratico (con il sostegno fanatico da parte dei neo-conservatori giapponesi) stanno spingendo con fermezza per indebolire l’Articolo 9, la clausola di rinuncia alla guerra della Costituzione giapponese del dopoguerra.
BC: Allora parlando dell’Articolo 9: ora il Giappone sotto una certa pressione da parte degli Stati Uniti, sta tornando indietro alla posizione di una volta per essere ancora una potenza militare. Senza dubbio, le persone in Giappone se ne rendono conto. Un punto interessante che volevo condividere con Lei: ho sentito recentemente il capo dei Corrispondenti Esteri del Giappone – un tipo americano [con la Reuters] – dire che al popolo giapponese non importa così tanto l’Articolo 9, li preoccupa di più la tassa sui consumi di quanto gli interessi l’Articolo 9. Io non sono d’accordo su quello, ma c’è qualcosa di vero in quel genere di affermazione?
MO: È molto difficile rispondere a questo tipo di logica. In questo paese, la pace è un’idea molto accettata, un fatto accettato. La pace è una cosa così tanto comune qui, piuttosto differente dalla pace in altri paesi. Parlando della libertà negli Stati Uniti, sono gli americani coscienti della loro propria libertà?
BC: Forse la prendono per scontata.
MO: Si, la pace è data per scontata ora qui, perciò sembra che loro non si curino della pace, la pace è come l’ “aria” in questo paese. Niente servizio militare [obbligatorio in Giappone], per esempio. Se vai incontro al servizio militare, devi pensare a proposito della guerra o della pace, comunque. Ma qui, nessun servizio militare, affatto – teoricamente parlando, legalmente parlando, niente esercito. Naturalmente, comunque è falso: le persone pensano che non ci sia esercito, no? Le persone non devono andare nell’esercito per niente. La pace è così tanto data per scontata. La tassa sui consumi è un problema del tutto immediato. Perciò, è molto difficile rispondere a questo tipo di logica, per dire se sia corretta o no. Ma in ogni modo, quando organizziamo incontri, molte persone vengono al nostro posto, ai nostri incontri. Significa che loro sono consapevoli [dell’Articolo 9].
BC: Anche io lo credo. E credo che dal punto di vista della produzione principale dei mass media, possa apparire che la maggioranza delle persone non si interessino della pace. Non marciano nelle strade; solo si occupano delle loro vite quotidiane.
MO: Molti mass media non pubblicano una gran quantità di notizie sulla pace, sulle nostre attività. Solo l’Akahata [il giornale del Partito Comunista del Giappone] pubblica molte cose riguardo alle nostre attività. Molte persone [dei mezzi di comunicazione] non si interessano a quello. Significa in primo luogo che ai giornalisti non gli importa della pace.
BC: Se è una guerra, allora la pubblicheranno, ma la pace non fa molta notizia sui giornali.
MO: No. La pace è così tanto data per scontata. ...I giornalisti dicono sempre: “Un milione di manifestanti in Italia, ma ce ne sono solo cento qui”, così. Io dico: “Voi non scrivete mai di quello! Voi scrivete dell’Italia, scrivete degli Stati Uniti! Non scrivete di nessuna organizzazione, nessun movimento, nessuna dimostrazione che io organizzo in Giappone.” Loro non vengono. Questa è la situazione. Io non voglio lamentarmi di ciò; se mi lamento di questo finisco per lamentarmi di tante cose, una dopo l’altra.
BC: Le persone non lo leggono nei giornali, quindi non esiste in un certo senso. Quello è il problema.
MO: Ma la situazione potrebbe cambiare in una notte – anche in questo paese. Se succede qualcosa, le persone possono cambiare. Ogni cosa non va avanti per sempre. Loro potrebbero cambiare.
Guerre del presente e del futuro
BC: Quanto ad alcune considerazioni finali: abbiamo parlato di tante cose. Secondo Lei in quale direzione sta andando adesso il Giappone? E quale dovrebbe essere l’eredità del Giappone per il futuro nella comunità internazionale?
MO: È una bruttissima direzione. ...Le persone più giovani, compreso [il primo ministro] Koizumi Junichiro, pensano che il Giappone possa essere difeso militarmente. Ma io non lo credo, da un punto di vista realistico, dalle mie esperienze di guerra. In primo luogo, verso la fine della guerra, il Giappone non aveva cibo. [Noi] non avevamo alcun alimento. Se la guerra fosse stata prolungata per altri sei mesi, io sarei morto. Molte persone sarebbero morte. Guardiamo alla situazione alimentare oggi: solo il 40 per cento del cibo consumato in questo paese è prodotto in Giappone. Il sessanta per cento il Giappone lo deve importare... La produzione di cibo in Francia è del 130 per cento, Germania 100 per cento, qualcosa del genere; il Giappone solo il 40 per cento... Se scoppia la guerra, il Giappone non può importare niente, quindi moriremo di fame o malnutrizione, molto facilmente. Questa è la lezione N. 1 imparata dalla guerra – un punto di vista realistico.
Secondo, noi non produciamo benzina, petrolio. Verso la fine della guerra, io ero un ragazzo di 13 anni: ho visto aeroplani giapponesi che non potevano volare a causa di una carenza di petrolio. Niente. Dissotterrammo le radici degli alberi di pino per l’olio di pino. Senza nessun petrolio, i carri armati non possono muoversi, gli aeroplani non possono decollare. Molto semplice. Quindi significa che il Giappone non può fare nessuna guerra adesso – completamente differente dalla situazione negli Stati Uniti, completamente differente dalla Francia, dalla Germania o dall’Inghilterra.
Dal punto di vista realistico, il Giappone è un paese di pace. Dovrebbe mantenere la pace, in primo luogo. La nostra Costituzione lo dice. Dobbiamo aggrapparci alla pace. L’Articolo 9 è un impegno importante diretto al mondo: “Noi non vogliamo fare la guerra. Non possiamo fare nemmeno una guerra di difesa. Quindi dobbiamo cambiare la situazione mondiale con negoziati o mezzi pacifici.”
L’Articolo 9 è molto importante, non solo per non fare guerre fuori [dal paese]; la guerra di difesa è impossibile qua. Ma sognatori come Koizumi Junichiro o i giovani membri dell’Assemblea del Partito Liberal-Democratico – o il Partito Democratico, [Seiji] Maehara, questo genere di persone – dicono “Noi possiamo fare la guerra”, in questo modo. Ma a me sembra che siano sognatori. Io sono, e devo essere innanzitutto, un realista. Questo è molto importante. E guardando alla situazione mondiale di oggi, gli sforzi di guerra non possono fare nessuna pace – nemmeno in Iraq – adesso. Se il più grande paese nel mondo, il paese più potente, gli Stati Uniti, non può fermare le azioni terroristiche, figuriamoci il Giappone. Questo è un punto di vista molto realistico. Io sono tantissimo realista, in un certo senso. Loro sono sognatori.
Perciò quello è il mio punto importante: noi dobbiamo mantenere questa Costituzione. Il fondamento del Giappone del dopoguerra è la Costituzione di Pace. È da un punto di vista realistico, non dal punto di vista dei sognatori.
BC: (È un) buon punto. Dopo tutto la guerra è l’ultimo sogno o la fantasia finale, no?
MO: Gyokusai ha un buon punto. La conclusione di Gyokusai è: ogni guerra è sbagliata. Quello è molto importante.
BC: Una domanda finale: Lei è passato attraverso la Seconda Guerra Mondiale, la Guerra di Corea e la Guerra del Vietnam. Ora nuove generazioni devono trattare con questi problemi. Ha qualche messaggio per i giovani che stanno adesso affrontando una specie di Seconda Guerra Mondiale o Guerra del Vietnam per loro? Come devono trattarlo?
MO: Dobbiamo affrontare le guerre presenti e future [insieme], capisce? Il preambolo della Costituzione [giapponese] è molto importante. Dice molte cose lì. La situazione del mondo deve essere cambiata, dice lì chiaramente – ma attraverso mezzi pacifici, non la guerra. Quando venni qui e guardai la televisione [l’11 Settembre 2001], vidi un aereo colpire il World Trade Center. Istantaneamente, pensai agli attacchi kamikaze di quando ero un ragazzo. “Questo è un attacco kamikaze,” dissi a me stesso. Nessuno disse ciò in quel momento; istantaneamente pensai, “Questo è un attacco kamikaze”. Noi facemmo qualche cosa del genere [durante la Seconda Guerra Mondiale].
Perciò scrissi questo piccolo articolo in un giornale giapponese; nessun altro scrisse di ciò in una maniera simile. Io dissi: “Noi dobbiamo essere realisti, in primo luogo. Non possiamo fare nessuna guerra, nemmeno una guerra di difesa. Ma allo stesso tempo, dobbiamo cambiare la situazione mondiale, altrimenti le azioni terroristiche accadranno sempre: attacchi suicidi e così via. Ma per fermare le azioni terroristiche, non si può usare ogni potere militare solamente per reprimerle – [ciò si può fare solo] con altri mezzi, mezzi pacifici. Questo è molto importante. Questa è una lezione dalla Guerra della Grande Asia.
Quindi, la Costituzione di Pace è importantissima – non solo per i giapponesi, ma per il mondo intero. Questo è il mio pensiero. Gyokusai esprime questo mio sentimento.
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